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Roma 23 aprile 2015

 

a cura del dott. Marco Salerno

 

Nel libro “generation me” la psicologa Jean M. Twenge della San Diego University, descrive in modo approfondito le caratteristiche della generazione di persone nata tra gli anni ’80 e ’90 che si distingue  per essere stata incoraggiata a sviluppare l’autostima e a perseguire i propri diritti sin dall’infanzia grazie alla libertà e all’indipendenza di cui disponevano, alimentando le aspettative di successo sulla propria vita. Questo ha determinato un vero divario tra gli obiettivi che immaginavano di raggiungere e le opportunità offerte dalla realtà. La psicologa descrive la “generation me” composta da persone che vogliono sentirsi liberi dai condizionamenti sociali e prendere le proprie decisioni, credendo di avere a disposizione un potenziale illimitato di scelta. Quando questo non avviene assumono un atteggiamento cinico e disilluso perché il mondo non rispecchia le loro aspettative. Ma cosa distingue la “me generation” dalle generazioni precedenti? Jean M. Twenge ne identifica sei aspetti  caratterizzanti:

 

  1. Prende le distanze dalle tradizioni del passato sia nell’abbigliamento che nell’orientamento sessuale, è poco interessata a come le situazioni erano vissute nel passato e più concentrata su come definire condizioni di vita migliori per se.
  2. Crede in se stessa e si aspetta di meritarsi il meglio
  3. Ambisce spesso a raggiungere i gradi più alti dell’istruzione
  4. Non possiede filtri comunicativi, esprime chiaramente ai propri interlocutori ciò che pensa di loro, condivide con facilità ogni aspetto della propria vita con le persone vicine, indipendentemente dal grado di familiarità raggiunto
  5. Pur ambendo ad un lavoro soddisfacente, spesso non è disposta a sacrificarsi e a fare compromessi per raggiungere questo obiettivo
  6. È composta da individui che hanno il bisogno di essere riconosciuti come unici e inimitabili
Non è un caso che i membri della “me generation” siano quelli che facciano maggior uso dei social network e che scattino centinaia di selfie, meritandosi l’appellativo di “selfie generation”. Il termine selfie è stato proclamatato dalla Oxford University Press, nella sua sezione Oxford Dictionaries, parola (inglese) dell’anno 2013 con la quale  si fa riferimento ad un autoritratto fotografico fatto con il telefonino e postato sui social network’. L’uso esponenziale dei selfie affonda le radici nell’idea che chiunque sia interessato ai dettagli della vita personale di chi lo scatta, nel desiderio di dimostrare quanto favolosa sia e nel terrore di essere una persona irrilevante e anonima. Tale valutazione di sé  alimenta la dimensione narcisistica individuale secondo la quale ogni persona crede di essere unica e il centro del mondo. A testimonianza di ciò è stato declinato un vero e proprio decalogo del selfie perfetto, che si riassume nei seguenti punti:
  1. Scatta più foto nella medesima posa per assicurarti di avere la foto perfetta
  2. Assicurati di non metterti in posa, assumi un atteggiamento come se non avessi idea che qualcuno ti stia scattando una foto
  3. Cerca di includere persone estranee nella tua foto per dare l’impressione di avere molti amici
  4. Modifica ogni foto per renderla ancora più unica e vicina alla perfezione
  5. Scegli uno sfondo adatto per la tua foto
Nel marzo del 2013 sull’Atlantic, rivista di cultura statunitense, è uscito un articolo dal titolo “l’epidemia del narcisismo nell’era di internet”, secondo la ricerca di Jean M. Twenge e di W. Keith Campbell,  la diffusione del narcisismo nella cultura contemporanea è stata esponenziale, in relazione alla crescente ed esclusiva attenzione sulla propria esistenza. Gli autori affermano che siamo nel bel mezzo di una epidemia narcisistica, alimentata dall’uso smodato dei social network e dal bisogno frenetico di postare foto durante ogni ora della giornata.  La diffusione del narcisismo ha una significativa influenza sul contesto culturale e sociale, determinando una ”visione tunnel”, nella quale la cura e l’attenzione ossessiva verso se stessi impedisce di volgere lo sguardo verso l’esterno e di prendere in considerazione altri individui. Alcuni ricercatori dell’università della Georgia hanno studiato gli aspetti psicologici e le motivazioni che spingono una persona a scattarsi  un selfie. Tra le ragioni più frequenti hanno rilevato un marcato bisogno di autovalorizzazione, il bisogno di un continuo contatto sociale e di essere ammirati.  L’uso ossessivo dei selfie inoltre è associato  all’ansia, alla depressione e al disturbo narcisistico di personalità che porta a ricercare una costante conferma di sè negli altri, per colmare il vuoto emotivo ampliato dalla sovraesposizione ai social media.  A sostegno di questa condizione è stata definita la “regola dei like” secondo la quale più “like” (apprezzamenti) si ricevono, in relazione alla propria foto, maggiore sarà il senso di apparente benessere e di felicità percepito. Tale stato di benessere sarà messo rapidamente alla prova dal confronto costante con le foto di altre persone, per misurare quanto e se il grado di apprezzamento delle proprie foto rimane inalterato o viene superato da altre. Basare la propria felicità sul livello di gradimento di una foto è molto rischioso e a volte ha determinato conseguenze imprevedibili come la storia del teenager britannico ossessionato dal desiderio di realizzare il selfie perfetto. Ha trascorso circa dieci ore al giorno scattandosi più di 200 selfie, ha perso peso, abbandonato la scuola e non è uscito da casa per sei mesi fino a tentare il suicidio. La conseguenza della ricerca di scattare il selfie ideale lo ha isolato sempre più dal mondo circostante in una sorta di delirio psicotico fino a fargli perdere il contatto con la realtà, ossessionato dalla ricerca della perfezione in ogni dettaglio e dal bisogno di ricevere il riconoscimento e la gratificazione in base al livello di gradimento digitale della propria foto.

 

Biografia:

 

 Halpern, Jake. “The new me generation”. Boston Globe, Sept.30, 2007

 

Twenge, Jean. “Generation me: why today’s young americans are more confident, assertive, entitled and more miserable then even before”

 

Williams, Ray. “Is the me generation less empathetic” Psychology today, June 6, 2010