Roma 08/07/2024

A cura del dott. Marco Salerno psicologo psicoterapeuta

 

Come altre volte, partiamo dall’etimologia delle parole: perdono
è un termine che si attesta nella nostra lingua nel medioevo,
come trasformazione del latino condonare, ovvero regalare,
rimettere, ma passando dal significato più propriamente
materiale di concessione di un beneficio o comunque di un
bene concreto, ad uno più spiccatamente morale, di remissione
di una colpa.
Ma attenzione, la remissione non significa cancellazione (sì,
anche, nel senso giuridico della parola, ma intesa come
estinzione di una condanna o comunque annullamento di una
sanzione), non vuol dire che il fatto che ha ingenerato una
ferita, un torto subito, venga dimenticato, semmai che la
conseguenza dell’ingiustizia subita, ovvero il desiderio di un
risarcimento adeguato, della rabbia che proviamo fintanto che
tale richiesta non sia soddisfatta, non ci condiziona più, non ci
imprigiona come solo la voglia di vendetta contro chi ci ha fatto
del male può fare.

Si dice non a caso che il perdono liberi più chi lo concede che
chi lo riceve.

E qui veniamo al tema del perdonare sé stessi, atto in cui chi
concede il perdono coincide con chi lo riceve, e dunque in
qualche modo si libera doppiamente.
All’origine di tutte le relazioni tossiche, da parte di chi ne cade
vittima, c’è sempre un’incapacità di amarsi, e di conseguenza di
avere un corretto e sano senso di autostima, che viceversa,
qualora fosse adeguatamente presente, consentirebbe di
innalzare un’efficace barriera difensiva, che l’eventuale soggetto
manipolatore che volesse prendere il controllo della vita del
partner, attraverso i consueti metodi manipolatori, troverebbe
invalicabile.

Eliminare l’odio verso di sé permette di amarsi, nonché di
amare e di essere amati in modo sano dagli altri, non
scivolando più nelle insidiose trappole di quell’autentica truffa
esistenziale che è rappresentata dall’amore tossico.
Naturalmente si tratta di una scelta, anche dolorosa, fra odio e
amore, fra Male e Bellezza: si tratta innanzitutto di riconoscere
a sé stessi di non essere stati capaci fino a un dato momento
della propria vita di tirare fuori il dolore ed elaborarlo e
finalmente, attraverso un percorso di consapevolezza, giungere
a quell’assoluzione che appunto ci libera da un peso enorme,
da un vincolo che impedisce di godere appieno dell’esistenza e
di realizzare il nostro autentico Sé.

Al contrario, conservare quell’odio verso sé stessi porta a dare
sempre la colpa della propria infelicità a fattori esterni, alla
sfortuna, che non ci ha mai fatto incontrare altri partner che non
fossero dei predatori narcisisti.
Ma la scelta di riconciliarsi con sé stessi la possiamo fare solo
noi, individualmente, certamente anche grazie all’aiuto di un
terapeuta che sappia guidarci nel percorso, che può essere
arduo e accidentato, volto a riprendere in mano il progetto
esistenziale che da solo ci riporta ad essere autenticamente in
sintonia con la nostra verità, coi nostri bisogni più intimi, coi
nostri desideri e le nostre aspirazioni, che i rapporti con i
soggetti patologici viceversa sistematicamente affossano e
frustrano.
Finché, appunto, noi glielo permettiamo.
Un amore vero, sano, si riconosce dal fatto che non si sostanzia
nel controllo, nella prevaricazione, nel desiderio di uno dei due
partner di dominare l’altro, non è menzogna, soffocamento,
aggressione, ma al contrario è libertà, che ci si riconosce
reciprocamente, di essere sé stessi, è costruzione di un
progetto comune basato sul rispetto e la comprensione dei
tempi, dei ritmi, dei talenti e delle capacità di ciascuno.