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Ricostruire la propria vita dopo la fine di una relazione

Roma 20 dicembre 2016

 

A cura del dott. Marco Salerno psicologo psicoterapeuta a Roma

 

In una societa’ dove la sofferenza o e’ bandita o mercificata, l’abbandono spesso viene liquidato come un evento che bisogna superare rapidamente, a cui dedicare un poco tempo, che non vale la pena di vivere troppo profondamente come se il soffrire significasse dedicare tempo a chi si e’ perso e non a se stessi. La sofferenza e’ uno stato d’animo interiore che puo’ derivare dall’abbandono quando finisce una relazione (amicale, di coppia, familiare, ecc.) che innesca stati d’animo come la frustrazione,l’ansia, la rabbia , il dolore. Ogni abbandono implica una separazione e una chiusura, per cui e’ fondamentale trasformare l’abbandono, inteso come vissuto, in una separazione attiva grazie ad una corretta analisi, per comprendere le dinamiche sottostanti che hanno determinato questa situazione. Di solito si attivano due processi quando si vive un abbandono, il primo spinge a dare la colpa a se stessi mentre il secondo all’altro. Entrambi sono processi disfunzionali, poiche’ quando la persona attribuisce la colpa a se per la fine di una relazione, si auto investe di tutta la responsabilita’, escludendo l’altro dal quadro delle azioni che hanno portato alla rottura. Nel caso in cui si attribuisca in esclusiva al partner il fallimento della relazione, si evita di considerare il proprio contributo all’interno della relazione. Solo alcune persone si pongono la necessaria domanda “Che cosa ho sbagliato o fatto io? Che cosa ha sbagliato lui/lei?”. La risposta a questa domanda e’ il primo passo per trasformare un evento traumatico (la fine della relazione) in un momento di riflessione, di  emotivi dolorosi, dei pensieri disfunzionali, sperimentati durante la relazione e che hanno condotto alla sua fine. Elaborare con consapevolezza il motivo per cui avviene un evento negativo, liberandosi dal giudizio, porta ad una profonda consapevolezza dei processi emotivi e cognitivi che si attivano in modo inconsapevole e ripetitivo durante una relazione.

5 rimpianti prima di morire

Roma 13 gennaio 2014

 

a cura del dott. Marco Salerno

 

Alcuni mesi fa mi sono imbattuto in un articolo sull’Huffington Post che mi ha molto colpito perché raccoglieva le testimonianze di Bronnie Ware,  infermiera che assisteva malati terminali, per Unbounded Spirit  . E’ emerso che i rimpianti più frequenti per molti malati sono stati quelli di avere perso tempo ad inseguire obiettivi effimeri che non hanno permesso loro di stare in contatto con sé stessi e con i propri desideri più profondi. I cinque rimpianti più frequenti sono:

 

a) Avere il coraggio di vivere la propria vita e di realizzare i propri sogni: troppo spesso ci adattiamo e ci perdiamo compiacendo chi ci circonda senza mai chiederci come realmente vogliamo vivere. Prendiamo in prestito mille scuse e giustificazioni, tra cui “è più facile a dirsi che a farsi”, “non è facile”, “la crisi”, ecc. Siamo sprovvisti della capacità di guardarci dentro e prendere il coraggio a quattro mani per chiederci: “se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita lo avrei vissuto così?” Proviamo a porci questa domanda e a vedere se la risposta che ci diamo ci soddisfa, non dimenticando che non abbiamo un tempo infinito a disposizione.

 

 b) Lavorare di meno: renderci conto di avere investito la maggior parte delle nostre energie nel lavoro, nel fare carriera, inseguendo il riconoscimento del nostro valore esclusivamente attraverso la crescita professionale. A questo punto alcuni potrebbero muovere l’osservazione che senza lavoro non si sopravvive, ed è vero ma il problema ormai è aver fuso e confuso l’ambito lavorativo con quello personale, privandoci degli spazi e del tempo che potremo dedicare a chi amiamo, in primo luogo a noi stessi.