Roma 17 settembre 2023

A cura del dott. Marco Salerno

 

Da anni siamo bombardati da campagne di pubblicità progresso
che giustamente mettono in guardia contro i pericoli derivanti
dal consumo di sigarette, o dalla dipendenza dal gioco,
ovviamente quando si tratta di quello d’azzardo o che in
qualche modo rischia di mandare in rovina chi lo pratichi
sperperando denaro.
Eppure la medicina sta scoprendo che in alcuni soggetti esiste
una predisposizione alla dipendenza da sostanze cosiddette
stupefacenti, dal tabacco e derivati, così come da
comportamenti nocivi come la ludopatia.
Sappiamo che il nostro corpo, in concomitanza con situazioni
che ci danno piacere, attiva la produzione di neurotrasmettitori
(come ad esempio la dopamina) che provocano benessere,
quando non autentica euforia.
Ecco perché, una volta che il nostro cervello ha introiettato
questo meccanismo fisiologico, è quanto mai difficile liberarsi
delle dipendenze.
La dipendenza affettiva non rientra, almeno per ora, nel novero delle
patologie né viene considerata una malattia da curare o tanto
meno un disturbo della personalità, benché in taluni individui sia
alla base del disfacimento dell’esistenza, soprattutto quando
costoro s’imbattono in soggetti affetti da narcisismo patologico e
ne diventano prede.
Da cosa nasce dunque la dipendenza affettiva? In taluni il
bisogno d’amore al limite dell’ossessione è un antidoto alla
sofferenza, o più semplicemente alla noia, a un certo qual “male
di vivere”, oppure rappresenta una ricerca continua di maggior
benessere, anche se poi, comportando spesso una scarsa
lucidità e capacità di giudizio, conduce all’esatto opposto.

Ma chi ne soffre, ancorché si avveda di essere caduto nella
trappola di un predatore che di certo non desidera il bene della
sua vittima, non riesce in alcun modo a liberarsi, a sottrarsi alla
cappa di oppressione perniciosa in cui progressivamente va
consumandosi la propria esistenza.
“Odio ed amo. […] sento che accade e mi tormento”, scriveva
Catullo in uno dei suoi carmi più celebri.
E il dipendente affettivo, pur conscio delle nefaste conseguenze
di una relazione tossica, sente che uscirne sarebbe ancora
peggio che restarvi implicato.
In questi casi l’amore, che quando è sano ed espresso
all’interno di un rapporto equilibrato, dove ognuna delle parti
coinvolte dà e riceve sostanzialmente allo stesso modo e con la
stessa intensità, potrebbe definirsi una “droga leggera”,
viceversa si trasforma in una “pesante”, in grado di avvelenare
talvolta fino alle più estreme conseguenze la vita di chi non può
proprio farne a meno.
Non a caso un film di Truffaut del ’69, il cui protagonista, pur
ingannato e derubato dalla donna che a sua volta aveva ucciso
e preso il posto di colei con cui egli aveva corrisposto per lettera
allo scopo di sposarsi, aveva finito per innamorarsene al punto
di uccidere per lei e di rovinarsi, pellicola che in francese
riprendeva il titolo del romanzo da cui era tratto (La sirena del
Mississippi), in italiano venne tradotto La mia droga si chiama
Julie.

Ecco, chi soffre di dipendenza affettiva patologica, al pari di un
drogato, finché non riesce a disintossicarsi, perde ogni
presenza di spirito che possa consentire di condurre una vita
sana e normale e si lascia trascinare nell’abisso da parte di chi
(il contro-dipendente) non prova alcuna remora a smontarne,
pezzo per pezzo, l’esistenza.
È bene tenere sempre presente il fatto che i narcisisti non
provano alcun tipo di empatia verso il prossimo, figuriamoci nei
confronti dei propri partner. Anzi, il loro scopo precipuo, come

sappiamo, è proprio quello di svalutarli fino a ridurli a puri
involucri, a uno stato larvale, incapaci di ribellarsi.
Perciò, sovente, il dipendente affettivo è un soggetto con un
basso grado di autostima, che dunque permette a un altro
individuo di approvvigionare il proprio smisurato ego
approfittando della insalubre abnegazione del partner,
succhiandone ogni succo vitale.
Certo, a volte anche il narcisista potrebbe dimostrare una sorta
di apparente forma di dipendenza affettiva, ma ciò accade solo
in quei casi in cui la vittima si ribella e fugge dalla relazione.
Un distacco inaccettabile agli occhi del narcisista, che farà di
tutto per riconquistare il partner, che gli serve come fonte
indispensabile per nutrire i propri bisogni malati.
E può anche riuscire nell’intento, essendo capace recitare
perfettamente la parte del pentito, che promette di non
comportarsi più come fatto fino al momento della rottura, magari
ben sapendo che dall’altra parte c’è un soggetto debole, che in
un momento di improvvisa lucidità ha sì compreso di trovarsi in
pericolo ed è saggiamente fuggito, ma che in fondo a sua volta
non riesce davvero a fare a meno del proprio carnefice.
Nel dipendente affettivo l’amore non corrisposto, o anche il fatto
di essere il solo a contribuire alla costruzione del rapporto,
senza mai ricevere nulla di significativo in cambio, non ingenera
una sana diffidenza cui segue un opportuno allontanamento, o
una giusta pretesa di corrispondenza, da parte dell’altro
soggetto della relazione, di uguaglianza nella bilancia del dare e
avere, ma invece comporta molto spesso un’ostinata speranza
di suscitare prima o poi nel cuore altrui quei sentimenti che
purtroppo non potranno mai nascere.
Il dipendente affettivo è anche colui (o colei) che testardamente,
anche una volta che è stato maltrattato oltre misura e infine
scartato dal partner narcisista, spera in una riconciliazione
oppure in una spiegazione, se non addirittura in delle scuse per
essere stato offeso e umiliato, malgrado tutto l’amore offerto
invano.

Ecco, è proprio “invano” il termine che i dipendenti affettivi – e
in generale chiunque si ritrovi ad essere vittima di un narcisista
patologico – dovrebbero tenere ben presente per salvarsi dalle
relazioni sbagliate e dalle eventuali ricadute.
È fondamentale, per uscire definitivamente dalla trappola, per
ricostruire la propria esistenza sentimentale, comprendere una
volta per tutte che è assolutamente inutile sperare in
cambiamenti, pentimenti o ravvedimenti da parte di un
manipolatore, di chi ha operato esclusivamente per distruggere
la vita altrui, al solo fine di riempire il gigantesco vuoto della
propria anima.
L’unica scelta da operare è farsi aiutare, se possibile da un
terapeuta che possa guidare chi è caduto nelle sabbie mobili di
una relazione tossica a ritrovare le ragioni e i modi per amare in
modo sano, che significa in primis concedere il proprio cuore a
chi saprà prendersene cura, restituendo quanto ricevuto in
misura equilibrata, perché l’amore deve essere come un buon
bicchiere di vino, da assaporare in allegria, che induca un po’ di
sana ebbrezza, non certo l’obnubilamento dei sensi che rende
inerti.